Barry Levinson, regista versatile e controverso
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Non è una stella del firmamento cinematografico, ma ha raggiunto traguardi professionali eccelsi e diretto grandi star. Barry Levinson nel corso della sua carriera di sceneggiatore e regista ha alternato grandi successi a fiaschi colossali. Eppure il suo è un cinema che lascia il segno, grazie alla sapiente costruzione narrativa e ai suoi personaggi. Non sarà forse considerato un “genio” come Tarantino, Tarantino, ma è riuscito a tratteggiare personaggi molto umani, ben contestualizzati attraverso una brillante trama dialogica. Quello che colpisce nelle sue opere non è tanto l’eccezionalità, quanto la dimensione più intima, segnata da incomprensioni, da una sorta di disagio affettivo e relazionale, che si esprime sia in ambito coniugale che familiare in senso più ampio. Alcuni ritratti sociali restano impietosi e memorabili, come il Denny De Vito di Tin Men: due imbroglioni con signora, ritratto amaro di un piazzista fraudolento, volgare e cinico.
Al suo esordio nella regia con “A cena con gli amici” riceve già una nomination all’Oscar per la sceneggiatura, per poi decollare dirigendo Robert Redford in “Il migliore”: una storia di riscatto e di speranza, dai toni a volte epici e sorretto dalla grande interpretazione di Redford.
Vediamo insieme quei film di Levinson che ci paiono significativi o che hanno fatto discutere, affrontando tematiche scomode, attuali o, magari, impopolari: guerra, eutanasia, autismo.
Good Morning Vietnam!
Vedere oggi questo film interpretato da un giovane e vulcanico Robin Williams stringe il cuore. È lui il fulcro della storia, che Levinson dipinge con tratti accesi e vitali. La pellicola ruota attorno alla figura di Adrian Cronauer, un disc-jockey dell’aviazione americana che, visto il successo riscosso a Creta, viene trasferito a Saigon con un compito difficile: risollevare il morale dei soldati. In un momento critico per le sorti dell’esercito americano, carico di paura ed incertezze, il tagliente istrionismo di Adrian, che si esprime in modo anticonformista ed irriverente, contrasta con la filosofia di informazione del Pentagono, che giudica in modo severo il tono dissacrante della trasmissione. La storia d’amore con una ragazza vietnamita sviluppa un secondo filone del film, affiancandosi alla satira politica. Levinson esprime dunque un doppio registro stilistico, ove da un lato la musica rappresenta un’aura di speranza anche nei contesti più ardui, grazie a dialoghi ben costruiti, mentre il romanticismo sfiora temi razziali con le tinte di un dramma in rosa e celebra, in fondo, l’amore per la vita.
You Don’t Know Jack
Forse non uno dei più famosi film di Levinson, ma sicuramente uno dei più interessanti dal punto di vista registico. La pellicola è un biopic che ripercorre la storia di Jack Kevorkian – interpretato da un magistrale Al Pacino – medico di origini armene che dal 1990 al 1999 ha assistito nel suicidio più di 130 pazienti. Il film inizia dal primo paziente per seguire lo sviluppo psicologico del protagonista e delle tante persone che, arrivate in situazione clinica terminale, desiderano porre fine alle proprie sofferenze. Le leggi del Michigan lo vietano, ma Kevorkian escogita un metodo per aggirare la legge e ed esaudire il loro desiderio: tramite una pompetta i pazienti possono iniettarsi da soli la miscela di farmaci che li condurrà alla morte. Levinson in questo dramma psicologico affronta molti temi ancora oggi molto attuali, come il dolore, la morte, l’eutanasia, le leggi dello Stato spesso ipocrite, e ci sbatte in faccia l’ipocrisia della società americana, dove la dignità è sostituita da interessi ospedalieri e farmaceutici. Levinson realizza un film duro, a tratti ossessivo, ma con alcuni toni leggeri scanditi dalle suite di Bach, che aiutano a riflettere su un grande dilemma morale dei nostri tempi.
Rain Man, L’uomo della Pioggia
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Vincitore di quattro premi Oscar (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore, Miglior Sceneggiatura) e dell’Orso d’Oro a Berlino, questo film di Levinson, sviluppato nello stile del road movie, si muove su un impianto classico, pur non scadendo mai nel banale. L’impianto narrativo ruota intorno al rapporto tra due fratelli, Charlie, uno spregiudicato Tom Cruise, e Raymond, uno straordinario Dustin Hoffmann, nei panni di autistico dotato di straordinarie doti matematiche che saranno essenziali nel corso del loro viaggio da Cincinnati a Los Angeles, terra di grandi talenti, con sosta a Las Vegas.
Il film disegna un percorso che conduce i due alla conoscenza reciproca in modo anticonvenzionale, alternando battute sagaci a scene drammatiche, senza però risultare mai scontato. Infatti quello che manca, qui, è la catarsi, nessun finale favolistico alla Frank Capra: Levinson non regala nemmeno un abbraccio liberatorio, se non un accenno verso la fine. Il regista si affida, oltre che al dialogo, ai silenzi, agli sguardi, ad un’espressività corporale vivace e attenta ad esprimere l’essenza dei personaggi.